«Je suis entrée dans le monde du vin sans autre formation professionnelle qu’une gourmandise certaine des bonnes bouteilles»
(«Sono entrata nel mondo del vino senza alcun’altra formazione professionale che una sicura golosità per le buone bottiglie»)
Ovviamente questa non è mia: è una citazione della mia scrittrice preferita, Sidonie-Gabrielle Colette, grande appassionata di vino e di gastronomia, innamorata della vita e della natura, a cui non potevo non dedicare un post.
Nata in Borgogna il 28 gennaio 1873 e morta a Parigi (in rue de Beaujolais!) il 3 agosto 1954, Colette è una delle scrittrici più celebri in Francia e all’estero.
Membro dell’Académie Goncourt, fu una donna libera e audace che non esitò a farsi beffe delle regole di una società pudibonda e profondamente ipocrita.
Tre volte sposata e due divorziata, apertamente bisessuale, nel 1907 diede scandalo esibendosi a seno nudo a teatro. Altrettanto scalpore fece la sua convivenza con l’artista aristocratica Mathilde de Morny, detta Missy, che usava vestirsi e comportarsi da uomo.
La Chiesa cattolica le negò il funerale religioso, ma – prima donna in Francia – ottenne le esequie di Stato nella corte d’onore del Palais Royal e fu sepolta nel cimitero del Père-Lachaise.
Vera e propria ambasciatrice del vino per tutta la sua vita, Colette trasformò questa sua passione in un emblema: all’epoca essere esperta di vini significava infatti farsi valere in un ambito riservato agli uomini.
Degustatrice appassionata – anche se in un certo qual modo moderata – e persino viticoltrice, Colette era affascinata dai colori, dai sentori e dalle sfumature del vino e amava affinare il suo palato andando alla scoperta di regioni e terroir.
Pur non avendogli consacrato alcun romanzo, nella sua opera il frutto della vigna è molto presente, ad esempio in Prigioni e paradisi e ne Il fanale blu.
Epicurea nel vero senso del termine e sempre affezionata alla sua terra natia, Colette visse la sua infanzia a Saint-Sauveur-en-Puisaye, a stretto contatto con la natura.
Per lei la gourmandise (golosità) era un principio quasi filosofico, un elemento di saggezza e di conoscenza, una forma dell’arte di vivere.
La nostalgia dei sapori dell’infanzia, delle merende e dei frutti selvatici consumati in abbondanza nella sua Puisaye natale è una costante nella sua opera, costellata di ricordi di gioventù.
In Puisaye però non si produce vino: da dove viene quindi la passione enoica di Colette?
Benché la sua famiglia fosse di grande sobrietà, la cantina di casa era ben fornita e leggenda vuole che la scrittrice fosse stata iniziata da suo padre con un Muscat de Frontignan all’età di tre anni. Ma in realtà fu sua madre Sidonie, detta Sido, a farle scoprire la poesia del vino.
«Il vino, un tonico necessario»
Donna dalla forte personalità e molto spesso presente nelle opere di Colette, Sido credeva fortemente nelle virtù salutari del vino: se la scrittrice aveva fatto le sue prime esperienze enologiche con il vino caldo aromatizzato con cannella e limone e accompagnato da castagne bollite, tra gli 11 e i 15 anni – temendo che crescesse pallida – Sido faceva degustare alla figlia qualche goccia di Château-Lafite, Chambertin o Corton per accompagnare i suoi spuntini pomeridiani al ritorno da scuola (cotolette, cosce di pollo fredde o formaggi stagionati) e contemplando poi sulle sue guance «la gloria dei vini francesi».
Fu proprio in questo periodo che Colette scoprì il Jurançon, da lei definito come «un principe focoso, impetuoso, traditore come tutti i grandi seduttori».
Sido consigliava inoltre di non bere acqua a tavola, perché l’acqua fait grenouille (cioè fa venire «le rane nella pancia», come si dice anche a Novara!).
In effetti l’uso dell’acqua era riservato al giardino o per dissetarsi durante le giornate molto calde. A tavola si beveva vino, ma la sobrietà era comunque di rigore: «E bevete poco, per favore. Nel mio paese natio si dice che durante un buon pasto non si ha mai sete, ma molta fame di bere».
Colette aveva dunque fatto sue le idee della madre, tanto che in vecchiaia curava i suoi numerosi eccessi a tavola con un calice di Château d’Yquem…
Nel 1900, l’epoca in cui scrisse la serie di Claudine (il più grande successo editoriale della Belle Époque), il suo primo marito Willy le donò una casa nella Franche-Comté. Fu così che scoprì i vini del Jura, mostrando una particolare predilezione per il vin de paille.
Colette vignaiola e ambasciatrice del vino
Nel 1925, ormai divorziata, Colette acquistò una tenuta nei pressi di Saint-Tropez: due ettari di vigne, di foreste e di frutteti che battezzò La Treille Muscate. Si occupava personalmente dei diversi compiti, dalla potatura alla vendemmia.
La proprietà produceva 20 ettolitri di vino rosso, qualche damigiana di rosé e di bianco per gli amici di passaggio, ma anche ratafià e uva passa in acquavite. Erano attività che le piacevano e a cui si dedicò fino alla vendita della casa nel 1938.
Nel 1929 visitò i vigneti di Gevrey-Chambertin e Pommard e le cantine Chauvenet di Nuits-Saint-Georges, accompagnata dal direttore e da un fotografo. Sono celebri le sue immagini mentre degusta il vino dal tastevin.
In tale occasione Colette scrisse In Borgogna, un publireportage ante litteram che le attirò gli strali dei borgognoni. Chauvenet produceva assemblaggi di vini diversi e voleva creare un vino di marca: una bestemmia in una regione vinicola dove il terroir è sacro!
Gaston Roupnel, filosofo e professore all’Università di Digione nonché proprietario a Gevrey-Chambertin, scrisse una risposta infiammata a Colette, che fu pubblicata sul giornale digionese Le Bien Public.
Nel 1930 l’articolo di Roupnel fu addirittura letto in tribunale in occasione del processo che avrebbe poi portato alla delimitazione della Borgogna viticola e alla creazione delle appellation, ancora oggi in vigore.
Colette sommelière
Il vino sollecita la vista, l’olfatto e il gusto, ci permette di tenerli in esercizio e di affinarli, mettendo in moto la nostra memoria sensoriale. Accompagna momenti indimenticabili, suscita emozioni, ci regala impressioni cromatiche, fragranti e gustative.
Colette lo considerava come uno dei piaceri della vita e come un buon compagno, specialmente dopo le giornate difficili. Vi si avvicinava con tutti i sensi, descrivendone minuziosamente colore, aromi e sensazioni.
Da intenditrice si accontentava di piccole quantità per apprezzarlo, restando sobria, estremamente attenta e concentrata sul contenuto del calice.
Avendo assistito a numerose degustazioni fatte da professionisti, conosceva perfettamente la tecnica della degustazione e rispettava le tre tappe canoniche.
«Prima l’occhio…»: le raffinate descrizioni della «veste» testimoniano la ricchezza della scrittura di Colette, che nella sua opera dava particolare attenzione al colore per rendere ancora più realistica l’esperienza narrativa.
Non ci si deve quindi stupire se spesso raccontava i vini degustati citando sfumature non corrispondenti alla terminologia ufficiale, ad es. «topazio bruciato», «un rubino un po’ malva» o «un color lampone scuro».
Ad esempio, così descriveva l’effervescenza dello Champagne: «mormorio di bollicine, perle d’aria guizzanti».
«…poi il naso, infine la bocca!»: Colette era un’olfattiva (d’altronde aveva anche aperto un salone di bellezza!) e sapeva descrivere in modo straordinariamente ricercato i sentori e le sfumature gustative del vino, che si trattasse di «un Johannisberg secco e chiaro come uno schiaffo», dello «spumeggiare profumato di rosa di un vecchio Champagne», di un «Bordeaux dal profumo di violetta» o dell’«ardore muschiato del vino d’Asti».
Di lei il suo amico gastronomo Henri Béraud diceva: «I suoi occhi da cerbiatta spaventata sovrastano il naso più esperto di aromi e di essenze che si possa trovare a una tavola di intenditori».
Oltre a includere un numero impressionante di consigli gastronomici e di ricette, l’opera di Colette è un vero e proprio censimento dei vini francesi, a cui si aggiungono alcuni vini tedeschi e italiani degustati durante i suoi viaggi. Inoltre la scrittrice citava spesso anche i vini provenzali e quelli alla moda dell’epoca.
Questa «carta dei vini» estremamente diversificata rispecchia le sue tante esperienze e scoperte e comprende sia i grand cru sia i più modesti vin de pays, adatti ad accompagnare le pietanze rustiche e semplici che prediligeva. Infatti Colette dava spesso consigli culinari con indicazioni sugli abbinamenti cibo-vino più appropriati. Ma attenzione: il vino deve accompagnare armoniosamente la pietanza, senza sovrastare né mascherare i sapori!
Vino e scrittura
Colette riuscì dunque a integrare e a sorpassare la tradizione familiare e per tutta la sua esistenza intrattenne una relazione molto stretta con il vino: man mano, i suoi riferimenti enologici si fecero sempre più precisi e tecnici, a testimonianza delle numerose degustazioni e della sua conoscenza dei terroir e dei vitigni.
Dalle sue parole traspaiono una straordinaria sensibilità per le manifestazioni della vita animale e vegetale, un’attenzione del tutto particolare per le piccole cose che rendono straordinario il quotidiano e quindi anche per la cucina e il vino.
Questa grande dame della letteratura considerava il vino come «una pozione magica» in grado di rallegrare la vita quotidiana, spesso stabilendo dei parallelismi tra le sue virtù e il suo effetto su chi lo beveva.
In diverse circostanze il «divino nettare» agisce in modo benefico sui protagonisti dei suoi romanzi: scaccia le preoccupazioni e porta allegria, rinnovando l’appetito e la creatività.
Nel vino Colette ritrovava l’espressione stessa della composizione del suolo, trasmettendoci il suo approccio poetico e sensuale al mondo della natura.
Nella sua opera seppe delineare con tratti precisi questo dono della natura come status symbol culturale, sensoriale ed estetico, ricordandoci che il vino non è monolitico, il vino è diversità. I vitigni, il terroir, l’invecchiamento invitano a godere di piaceri differenti.
Il suo amore per la botanica e per il mondo vegetale si traduceva in descrizioni precise delle numerose vendemmie a cui aveva partecipato, riflettendosi inoltre nell’attenzione per le diverse varietà di vitigni e nel suo interesse per le pratiche vitivinicole e per la vinificazione.
Per la scrittrice il grande mistero del vino e prima ancora della vite, traduttrice fedele del vero sapore della terra, risiede tutto nella «magia celeste, passaggio di pianeti e macchie solari».
Anche l’essere umano s’inserisce nell’elemento cosmico quando lavora il vino: la vinificazione avviene infatti nel segreto delle cantine, al riparo dal tempo e dalla luce, e richiede gesti lenti e lirici come un cerimoniale ancestrale.
Divinità misteriosa a cui si deve rispetto, il vino non ama la fretta né la brutalità: bisogna aspettarlo, conservarlo come ricchezza per il futuro. Al suo cospetto, il tempo si addormenta piegandosi al suo ritmo.
Frutto di una vigna sottomessa alla terra, nelle cui profondità affondano le sue radici, e agli elementi come il sole e le piogge, per Colette il vino non era soltanto il risultato di un processo alchemico, bensì la chiave voluttuosa e sensuale dell’arte di vivere, traduzione della capacità dell’uomo di interpretare la generosità della natura.